venerdì 24 ottobre 2008

9.1 L'influenza upaniṣadica nella definizione di brahman

Tornando all'argomento di questo corso, il Vedānta prende le mosse dalle Upaniṣad e, nel caso che ci interessa, dal detto “tat tvam asi” (letteralmente “quello sei tu”). Distingue perciò un principio “tat” e uno “tvam”,ossia mondo oggettivo e mondo soggettivo. Le varie scuole vedāntiche si dividono poi sul modo in cui la relazione fra questi due viene intesa. Aun estremo troviamo il Vedānta monista di Śaṅkarācārya (anche solo “Śaṅkara”,vissuto forse nell'VIIIsecolo d.C.). Per lui, l'unica realtà effettivamente esistente è il brahman. Il brahman è identificato,secondo un altro detto upaniṣadico,come “sat,cit,ananta”,ossia “[realmente] esistente,coscienza,infinito”. Èsat in quanto esso solo realmente esiste,mentre l'apparente molteplicità che si propone ai nostri occhi non è che la sua māyā, la sua magia. Poiché è coscienza, è anche l'unico elemento coscienziale realmente esistente, l'unico vero pensante di tutti i nostri pensieri che, quindi, solo illusoriamente pensiamo essere distaccati e privati. Poiché è infinito,non tollera limitazione e non può quindi nemmeno essere definito in senso proprio,giacché ogni definizione sarebbe una limitazione. Si può perciò immaginare il brahman solo negando degli attributi da riferirvi e non attribuendoglieli positivamente. Esso, in altre parole,NONè finito,perituro,sofferente etc.;ma non si può dire che sia in senso stretto “beatitudine”,poiché ciò implicherebbe l'esclusione della non beatitudine e contraddirrebbe quindi l'infinità del brahman. Successivamente,però, la triplice aggettivazione sat, cit, ananta viene mutata in sat, cit, ānanda, ossia “esistente-cosciente-beatitudine”. La possibile difficoltà nell'attribuzione della beatitudine al brahman viene risolta sostenendo che il brahman è essenzialmente beatitudine e che duḥkha,il dolore,è solo illusoria creazione umana.

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