mercoledì 22 ottobre 2008

6.5 Liberazione

La liberazione (mokṣa o kaivalya, letteralmente “isolamento”) equivale per il Sāṅkhya proprio al riconoscimento della separazione da sempre e per sempre di prakṛti e puruṣa. Ciò significa che di fatto non “avviene” alcuna liberazione. La liberazione è solo il riconoscimento di uno stato che già era presente ab aeterno. Come però può avvenire tale riconoscimento? Ciascuno di noi in quanto puruṣa è in realtà già libero, ma noi in quanto esseri individuali ci crediamo legati perché ci pensiamo individuati in un corpo fisico, ci riconosciamo in quanto “io”, ossia siamo all'interno del quarto principio, o ahaṅkāra. L'inattività del puruṣa fa sì che, di fatto, per riconscere che siamo da sempre liberi possiamo contare solo su prakṛti. È questa che, allo stesso tempo, ci imprigiona e ci libera. In quanto “io” individuali siamo parti di prakṛti e quindi suoi prigionieri, ma in quanto essenzialmente coscienza siamo da sempre e per sempre liberi. Dobbiamo solo acquisire coscienza di tale stato e quindi della separazione eterna fra noi (non in quanto “io” individuali, bensì come pure coscienze) e prakṛti. Possiamo realizzare tale separazione nel momento in cui prakṛti ci si mostra e vediamo quanto essa sia diversa dal nostro esser coscienza. Prakṛti è quindi il nostro carceriere, ma anche l'impresaria di uno spettacolo grandioso (l'intera creazionee il suo dispiegarsi) che ha come unico scopo quello della nostra liberazione. Il suo mostrarsi a noi nella sua creatività ha infatti appunto lo scopo che noi prendiamo coscienza del nostro essere differenti. Ci si potrebbe chiedere perché prakṛti operi in direzione della nostra liberazione. In senso stretto, prakṛti non opera a tale scopo poiché, in quanto incosciente, non ha scopi. Tale è però la natura delle cose, da sempre.

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