venerdì 24 ottobre 2008

Riferimenti bibliografici

[D'Angelo] D'Angelo,editor. L'estetica della natura.
[Franco and Preisendanz] Franco,E. and Preisendanz,K. Nyāya-Vaiśeṣika,volume The Routledge Encyclopaedia of Philosophy. Routledge.
[Halbfass] Halbfass,W. On Being and What There Is.
[1] Halbfass,W. (1980). Karma,apūrva and ''natural'' causes: Observations on the growth and limits of the theory of saṃsāra. In O'Flaherty, W. D., editor, Karma and Rebirth in Classical Indian Traditions. University of California Press.
[2] Potter, K. H., editor (1977). Encyclopedia of Indian Philosophy. Indian Metaphysics and Epistemology: The Tradition of Nyāya-Vaiśeṣika up to Gaṅgeśa. Motilal Banarsidass.
[3] Schmithausen,L. (1991a).Buddhism and Nature. The Lecture delivered on the Occasion of the EXPO1990. An Enlarged Version with Notes.Number VIIin Studia Philologica Buddhica Occasional Paper Series. The International Institute for Buddhist
Studies.
[4] Schmithausen, L. (1991b). The Problem of the Sentience of Plants in Earliest Buddhism. NumberVI in Studia Philologica Buddhica Monograph Series. The International Institute for Buddhist Studies.

12.2 Lo status delle piante

Le filosofie e visioni del mondo più antiche in India concordano nel ritenere le piante esseri senzienti, compartecipi del nostro stesso tipo di destino. Anzi, in molti casi il confine del vivente è più amplio di quanto non riterremmo comunemente oggi. Vi sono inclusi anche i frutti, i semi (nel Vinayapiṭaka, una raccolta di testi del Buddhismo antico) e gli elementi (acqua e fuoco nel mondo vedico e nel Giainismo, pietre nella Bhagavadgītā). Questo può far sorridere un uditore odierno,ma probabilmente non farebbe sorridere un fisico,che sarebbe d'accordo nel ritenere l'acqua abitata da innumerevoli corpuscoli invisibili e non classificabili come “animali”. Nei testi si trovano perciò accenni alla possibilità di una reincarnazione come pianta o pietra.
Sul piano filosofico, solo nel Giainismo tali idee trovano una prosecuzione e una strutturazione. Il fondamento dell'etica giainista è infatti la nonviolenza (ahiṃsā), giacché è tramite la violenza (in pensieri, parole o atti) che viene prodotta la maggior quantità di karma (e l'aderenza del karma all'anima impedisce la liberazione). La nonviolenza include anche il non far commettere ad altri atti violenti e non approvarli in alcun modo e si rivolge egualmente a esseri umani, animali,piante,fino alle forme di vita più sottili e invisibili presenti nell'acqua o nel fuoco. Le piante in particolare sono dette viventi e senzienti, ma dotate del solo senso del tatto.
Una concezione simile sembra essere presupposta dalla proibizione, presente in un testo canonico del Buddhismo antico, di distruggere piante e semi. Le storie che accompagnano tale proibizione evidenziano anche come ritenere le piante esseri viventi fosse sentimento comune nella società dell'epoca (e, quindi, un monaco dovrebbe evitare di distruggere piante anche per rispetto nei confronti di tale sentimento comune).
Il raffinamento delle idee filosofiche opera però un progressivo distacco da tale opinione antica, in quanto la vita e la senzienza vengono sempre più identificate con facoltà superiori, considerate patrimonio esclusivo di uomini, esseri
divini e animali. Rimane l'idea che le piante debbano essere rispettate, ma non per se stesse,bensì in quanto abitate da insetti o altri esseri viventi.
Fuori dall'ambito buddhista,cito un esempio tratto da un testo medievale mīmāṃsaka, il Tantrarahasya di Rāmānujācārya. Come immaginabile, la discussione sulle piante si colloca all'interno di una discussione degli oggetti conoscibili (prameya), e in particolare delle sostanze (dravya). L'autore,che condivide l'atomismo Vaiśeṣika, in epoca medievale patrimonio comune di quasi tutte le scuole, si chiede di quali atomi siano composti i corpi. Dopo aver concluso (si veda la citazione nel paragrafo precedente) che essi sono composti di atomi di terra, aggiunge:
Quel che nasce da un germoglio/dall'acqua, ossia gli alberi e [le altre piante], non ha un corpo, poiché non ha fruizione (bhoga). Infatti, essere supporto della [fruizione] è lo scopo del [corpo]. E le affermazioni
Nel cimitero nasce un albero,accompagnato da corvi e avvoltoi (āgama ignoto).
L'uomo diviene pianta a causa dei difetti nel karman originati dal corpo (Manusmṛti 12,9).
non hanno indipendente [valore epistemico] poiché dipendono da quella prescrizione (che precede o segue nel testo), come nel caso di “l'animale sacrificale è il sacrificatore”, “il palo sacrificale è il sole”. Poiché contraddicono i mezzi di valida conoscenza.
(udbhijjaṃ tu vṛkṣādikaṃ na śarīram. bhogānupalambhāt. tadāyatanaṃ hi tatprayojakam. yad
api – śmaśāne jāyate vṛkṣaḥ kaṅkagṛdhropasevitaḥ || (āgama?)śarīrajaiḥ karmadoṣair yāti sthāvaratāṃ naraḥ || (manu. smṛ. 12.9). iti vacanaṃ tadvidhiparatantratayā na svatantram. yajamānaḥ paśuḥ (prastaraḥ) ādityo yūpaḥ itivat. pramāṇavirodhāt).
Come già accennato, śarīra indica i corpi in quanto viventi. Ai nostri fini è interessante che Rāmānujācārya debba imporre la propria idea contrastando una serie di citazioni,provenienti da testi non filosofici,quali la Manusmṛti e che puntano nella direzione opposta, provando cioè la senzienza delle piante (che sono equiparate a esseri viventi, per cui si dice dell'albero che “è nato”, jāyate) e la loro partecipazione al ciclo delle rinascite. Troviamo perciò anche al di fuori dell'ambito buddhista la stessa opposizione fra un'opinione prevalente favorevole alla senzienza delle piante e un'opinione (filosoficamente più raffinata?) che tale senzienza nega (si veda in merito l'illuminante (4)). La senzienza delle piante e la loro partecipazione al ciclo delle rinascite è quindi, prevedibilmente, ammessa dalle scuole viṣṇuite che considerano il Bhāgavatapurāṇa (un testo che testimonia dell'opinione comune anzidetta) un testo rivelato, ossia la scuola di Madhva, quella di Rāmāṇuja e quella di Caitanya.
È interessante infine notare come non sembra essere presa in considerazione la possibilità intermedia (spesso comunemente accettata in Occidente) che esistano esseri viventi,ma non senzienti (quali, appunto,i vegetali).

12.1 Gli animali

Praśastapāda,l'autore del Bhāṣya al Vaiśeṣikasūtra distingue fra
•esseri nati da un grembo
•esseri che non lo sono
Isecondi sono insetti e altri animali minuti, secondo Praśastapāda anche piante,e divinità.
I primi si dividono ulteriormente:
•nati da un uovo
•nati vivi

Un autore legato al momento di fusione fra Nyāya e Vaiśeṣika, Udayana, classifica invece le piante in un terzo gruppo.
I corpi degli animali, sostengono Nyāyasūtra e Vaiśeṣikasūtra,sono composti solo di atomi di terra. Creature divine hanno invece corpi d'acqua, di aria o di fuoco a seconda dei mondi in cui abitano. Del corpo non fanno parte i sensi che, come abbiamo visto nel dettaglio nel caso del Sāṅkhya, sono in India intesi come funzioni e non confusi con le rispettive localizzazioni fisiche. Tali sensi saranno composti di atomi corrispondenti al loro oggetto,per cui l'olfatto,che coglie una qualità propria della terra,è composto di atomi di terra, il gusto di atomi di acqua, il tatto di atomi d'aria, la vista di fuoco
e l'udito di etere.
Traggo infine una classificazione apparentemente “scientifica” degli animali da un testo medievale,il Tantrarahasya del mīmāṃsaka Rāmānujācārya:
Fra gli [oggetti conoscibili], solo la terra dà origine a corpi. Non gli altri elementi grossi,poiché [corpi fatti di altri elementi] non vengono mai percepiti e perché così si vede nella successione [senza inizio] di uomini e donne [i quali hanno corpi di terra] di oggi. Il contrario è semplicemente non esistente. Equesti [corpi fatti di terra] sono di tre tipi: nati da un utero,nati da un uovo,nati dall'umido. (tatra pṛthivy eva śarīrārambhikā. netarāṇi bhūtāni. tadanupalambhāt. idānīntanastrīpumparamparāyāś ca tathā darśanāt. viparītam asad eva. tac ca jarāyujāṇḍajasvedajabhedena
triprakāram eva).

Notiamo influenze naiyāyika (la classificazione del reale sotto l'etichetta di ciò che può essere conosciuto) e vaiśeṣika (la classificazione degli elementi,la genesi dei corpi), adattate però ai caratteri mīmāṃsaka. In generale, infatti, i mīmāṃsaka tendono a un acceso empirismo e a usare la percezione sensibile e il mondo come dato alla nostra esperienza quali parametri per giudicare della validità di una teoria o interpretazione.
Peraltro, la descrizione è solo apparentemente scientifica perché in realtà il criterio di fondo che la orienta è l'avere un corpo. Il “corpo” (śarīra) non è semplicemente un aggregato di atomi, bensì un aggregato che, al contrario di una zolla di terra o un ammasso di fango, ha uno scopo. Etale scopo è l'esperienza. Infatti, sensi, intelletto e possibilità motorie sono orientate al fine che noi possiamo esperire il mondo. Alla luce di tale criterio, non c'è differenza fra uomini, esseri divini e animali. Aggiungo lateralmente che si tratta di un criterio interessante e che si avvicina ad alcune elaborazioni di filosofi morali contemporanei. Rispetto alla distinzione classica per cui gli animali non possono avere gli stessi diritti dell'uomo poiché non sono razionali,ci si chiede infatti se la razionalità debba essere il criterio di fondo e non piuttosto la sensibilità intesa come capacità di percepire (to feel) e soffrire.

Questo spunto mi permette di passare a un altro aspetto dello status degli animali. Come già accennato, secondo l'opinone unanime di scuole “induiste”, buddhiste e giainiste,gli animali fanno parte del ciclo delle rinascite e la loro sorte è quindi paragonabile alla nostra. Si pone però un problema, se sia cioè possibile per gli animali l'emancipazione spirituale. Testi non filosofici “induisti” come il Mahābhārata o la Manusmṛti sembrano presupporre che ciò sia possibile,mentre l'opinione assolutamente prevalente nei testi filosofici è che solo a partire da una reincarnazione umana sia possibile la liberazione. Infatti,la vita umana è l'unica nella quale si realizzano le condizioni per la liberazione (mokṣa), grazie al buon equilibrio fra sofferenza (troppo intensa nelle rinascite animali perché ci si possa dedicare all'emancipazione spirituale) e piacere (troppo presente nelle rinascite divine perché si pensi alla necessità dell'emancipazione). Le scuole filosofiche che riconoscono parti del Mahābhārata o di testi simili come testi rivelati spiegano l'incongruenza dicendo che, seppure in linea di massima sia impossibile per un animale raggiungere la liberazione, tuttavia Dio, nella sua onnipotenza e libertà, può rendere chiunque oggetto della propria Grazia salvifica.
Una corrente tarda del Buddhismo Mahāyāna,però,detta “tathāgatagarbha”, sostiene che la natura di Buddha sia presente in nuce in ognuno, anche perciò negli animali e –pare– anche nelle piante (e in rocce e altre sostanze inanimate, secondo alcuni maestri cinesi e giapponesi)(cf. (3)).

12 La “natura” secondo i nostri paradigmi: flora e fauna

Ritorno alle premesse già rapidamente elencate all'inizio di questa indagine sulla natura nelle scuole filosofiche indiane:
premessa 1: reincarnazione e quindi continuità fra mondo umano-divino-animale (e,per alcune scuole,vegetale) (cf.(1)).
premessa 2: ahiṃsā come dharma comune alle varie scuole.
premessa 3: concetto di anādi, non creazione, per cui la natura non ha un inizio (o se lo ha,è un inizio ciclico).
La premessa 3 è fondamentale per capire la portata dell'idea di reincarnazione.
Poiché il ciclo è senza inizio, ogni essere vivente è già stato in rapporto con ogni altro. Nel Buddhismo,tale principio è esemplificato nell'idea che per ogni animale (anche per animali inferiori come vermi o altri invertebrati) dobbiamo provare compassione come ne proveremmo nei confronti di nostra madre, poiché ogni animale è in effetti stato nostra madre, dato che la reincarnazione si ripete in cicli senza inizio. Ciò fa sì che la violenza nei confronti degli animali sia necessariamente sentita come un'infrazione. Tale infrazione può essere giustificata sulla base, per esempio, dello svadharma del guerriero (ossia del dovere proprio alla sua condizione). Un guerriero deve infatti essere in grado di uccidere, se necessario. A tale scopo, è anche utile che sappia cacciare. Altrimenti, l'infrazione è giustificata sulla base di un ordine diretto dei testi sacri laddove viene ingiunto un sacrificio animale. Questa almeno è l'opinione delle scuole ortodosse, ma le lunghe argomentazioni che si trovano in proposito nei testi (specie mīmāṃsaka) mostrano con quanta difficoltà tale idea dovesse essere difesa da un'opinione prevalente ostile alla violenza sugli animali,anche nei sacrifici. Di fatto,l'opposizione alla violenza sacrificale sarà un caposaldo della critica del Buddha al mondo vedico.

11 L'approccio istantaneista del Buddhismo

Ilimiti temporali di questo breve corso non ci permettono di approfondire le caratteristiche dell'approccio buddhista al mondo che ci circonda, anche se nella prossima lezione parleremo di come il Buddhismo si rapporti alla natura come da noi intesa,ossia flora,fauna e loro habitat.
Ricordo solo alcuni punti di riferimento interpretativi cui abbiamo già fatto cenno. Le scuole del Buddhismo indiano, abbiamo detto nella prima lezione, condividono per lo più con l'Advaita Vedānta un approccio “illusionistico”. A differenza di questo, però,
l'illusione non è oggettivizzata, ossia proiettata al di fuori del soggetto conoscente, in una māyā che ci riguarda tutti allo stesso modo. Al contrario, l'illusorietà del mondo è per molte scuole buddhiste strettamente legata all'intervento del soggetto. Con “soggetto” non intendo riferirmi agli aspetti personali e privati di ciascuno di noi, bensì in primo luogo al nostro essere soggetti conoscenti. In tal senso, potremmo azzardare che molte scuole buddhiste abbracciano l'approccio epistemologico del Nyāya, per cui al centro è il soggetto conoscente e il mondo assume importanza solo in quanto è conosciuto, senza
però l'aderenza al realismo tipica del Nyāya.
Da tutto ciò deriva un ampio spettro di posizioni che va, cronologicamente e logicamente, dalla scuola
•Abhidharma, per cui esiste un mondo realmente esistente, ma a esistere sono i sensibilia (suono, qualità tangibili, colore/forma, gusto e odore) e non le sostanze che indebitamente postuliamo come loro supporto,
alla scuola
•Sautrāntika,per cui tali sensibilia hanno durata solo istantanea,
alle scuole
•Madhyamaka,per cui è impossibile affermare coerentemente l'esistenza di alcunché
e
•Cittamātra (o Yogācāra) per cui esistono solo flussi coscienziali.

10 Evoluzioni di tali concezioni di base: conseguenze nel tantrismo

Come evidenziato nel testo di Raffaele Torella, il Sāṅkhya ha esercitato una larga influenza nella cultura indiana, non tanto sulle altre scuole filosofiche “ortodosse” quanto sull'epica,lo Yoga, l'Ayurveda e sulle correnti così dette tantriche. Come spesso accade nel caso dell'India, anche nel caso di “tantrismo” abbiamo a che fare con un termine di difficile valutazione e certamente non univoco. Diciamo che al giorno d'oggi il termine viene usato in Occidente per pratiche e idee che hanno poco a che fare con i loro ascendenti indiani. Può essere interessante rintracciare le linee genetiche di tali idee,ma senz'altro esse non possono essere legittimamente prestate al mondo culturale indiano. Nell'India contemporanea, d'altronde, il termine tantrika ha assunto una connotazione negativa e indica per lo più praticanti di magia. In quanto segue, invece, mi riferisco a correnti impostasi a partire dalla metà del primo millennio della nostra era in ambiente buddhista e no e che enfatizzano il ruolo del rituale (proponendo però nuovi rituali, diversi da quelli vedici) e della devozione a un essere superiore dispensatore di grazia (Buddha e soprattutto i Bodhisattva da una parte,Śiva,Śakti o anche Viṣṇu dall'altra),che riconoscono una rivelazione ulteriore dopo quella vedica e che utilizzano una serie di pratiche a partire dall'iniziazione,al potere di alcune formule e grafemi (mantra, maṇḍala) e suoni in genere. Apartire da tali pratiche di ambito religioso si sviluppano anche scuole filosofiche che spesso prendono spunto dalle suddette pratiche per esplorarne possibili aspetti e significati. Così,l'attenzione per il potere di alcune formule linguistiche è all'origine della speculazione sul linguaggio di Utpaladeva (x secolo) e le pratiche sovversive di alcuni gruppi di aderenti sono ripensate e internalizzate in Abhinavagupta (xi secolo).
Tornando al legame con il Sāṅkhya, deriva da questo, forse attraverso il tramite dello Yoga, l'idea che il nostro aspetto naturale (nel senso di derivato da prakṛti,la quale è alla base anche di intelletto e senso dell'io) sia al contempo un legame e una risorsa. Èun legame in quanto ci separa dal riconoscerci come parte di Dio (al contrario del Sāṅkhya, le scuole tantriche sono generalmente teiste, come accennato), ma è anche una risorsa perché l'intervento su prakṛti ci permette di “coglierla in fallo” e liberarci dalla sua malia. Gli Śivasūtra di Vasugupta (forse ix secolo) spiegano perciò vari espedienti per sbirciare fra le giunture del continuum di prakṛti,coglierla in atto e passare così da parte di questa a suoi testimoni (sākṣin). Atale scopo le scuole tantriche usano spesso invece di una via di rinuncia progressiva all'azione e quindi a prakṛti in quanto azione, una via di intensificazione. Gettarsi in pieno in prakṛti, sperano, porta più rapidamente a scoprirla. Donde riti “enrgetici”.
Anche le divinità venerate hanno subito un'influenza Sāṅkhya. Gli adepti di scuole tantriche venerano infatti un Dio supremo, generalmente chiamato Śiva (Benefico) o Īśvara (Signore) che corrisponde alla pura coscienza (puruṣa) del Sāṅkhya. Come nel Sāṅkhya,viene generalmente ammessa una pluralità di coscienze individuali, anche se, come nell'Advaita Vedānta, così nelle scuole tantriche più estremiste Śiva è l'unica coscienza. Le nostre varie soggettività distinte non sono che illusorie,mentre in quanto esseri coscienti noi siamo già Śiva. Abhinavagupta parla perciò di rivelazione come riconoscimento (pratyabhijñā) della sostanziale identità fra anima individuale e Dio.
Resta però il problema dell'inattività dello spirito secondo il Sāṅkhya. Le scuole tantriche elaborano quest'aspetto in modi diversi. Le scuole più estreme oppongono a uno Śiva cosciente, ma affatto inattivo, la sua controparte femminile, o Śakti (Potenza, Energia). Questa sola è attiva e in grado di attivare Śiva, il quale, senza di lei, non è che śava (cadavere). Donde numerose raffigurazioni, tuttora visibili in India, in cui Śakti balla sul corpo inattivo di Śiva. Tali scuole, ovviamente, venerano Śakti anche al di sopra di Śiva stesso. Le scuole meno estreme, invece, come la succitata scuola del riconoscimento,dicono che l'attività è una qualità (guṇa) di Śiva, e che quindi non ha esistenza autonoma dal suo possessore (guṇin). In ogni caso,il radicale dualismo del Sāṅkhya è interrotto.
Viceversa, il Buddhismo tantrico distingue altrimenti fra una componente maschile attiva (identificata con l'upāya,il mezzo salvifico,ossia karuṇā,la compassione) e una componente femminile quieta (identificata con la conoscenza, prajñā). Aparti invertite, resta nell'iconografia come nel rituale e nei testi, lo stesso tipo di dualità e complementarietà.

9.4 Il Vedānta teista

Le scuole teiste si distinguono perciò dal Vedānta monista in quanto personalizzano il brahman, identificandolo con Dio. Ciò permette di porre maggiormente l'accento sul suo aspetto cosciente e di spiegare l'identità di ogni attività coscienziale come la non separatezza di ogni anima individuale da Dio. Per quanto riguarda l'esistenza del mondo empirico, le scuole teiste, con diverse gradazioni, abbandonano il monismo assoluto di Śaṅkara. Il Viśiṣṭādvaita Vedānta di Śrī Rāmānuja propone un “monismo con differenziazioni”, in cui cioè le anime individuali siano delle qualificazioni di Dio,unica sostanza esistente indipendentemente. Esse sono quindi qualificazioni dell'unica realtà che è brahman,Dio e non esiste altra sostanza. Tale brahman/Dio viene in tal modo a essere saguṇa (“dotato di qualificazioni”),in opposizione al brahman nirguṇa (“senza qualificazioni”, di cui non è possibile predicare nulla) di cui parla Śaṅkara. Simili sono le dottrine di Nimbarka e di Caitanya, che propone il bhedābhedavāda, ossia la teoria della “differenza/non differenza” fra Dio e anima individuale e fra Dio e mondo. Dio, sostengono i sostenitori di tale teoria,è insieme differente e non differente dalle anime individuali e dal mondo. Ciò non è spiegabile logicamente,poiché la natura di Dio sfugge alla logica umana e può essere colta solo nella poesia,in cui non vige il principio di non contraddizione ed è possibile enunciare la natura paradossale (nel senso di “al di là dell'opinione [logicamente sostenibile]”) di tale relazione. Lo status di māyā è allora descritto come quello di una pura devota (bhākta) di Dio e quanto è ontologicamente problematico viene risolito sul piano poetico.
All'estremo opposto rispetto a Śaṅkara si trova Madhva (XIIIsecolo), fautore del dualismo (dvaita), che sostiene l'esistenza di cinque differenze (bheda): fra Dio e le anime individuali, fra Dio e le sostanze materiali, fra le sostanze materiali e le anime individuali, fra le sostanze materiali fra loro e fra le anime individuali fra loro. Secondo Madhva,l'unica differenza ontologica fra Dio e mondo e fra Dio e anime individuali sta nel fatto che solo Dio è indipendente, ossia esiste autonomamente,mentre sostanze materiali e anime individuali esistono in quanto si appoggiano a Lui. Èproprio tale distinzione a tracciare una linea di demarcazione netta fra Dio da una parte e anime individuali e sostanze materiali dall'altra.

9.3 Il ruolo di māyā

Tutto ciò comporta però anche un problema. Abbiamo detto che la molteplicità è solo illusione, māyā. Ma cos'è māyā? Anch'essa non può essere diversa dal brahman, che altrimenti sarebbe limitato, né però identica a questo, che altrimenti sarebbe molteplice. Un corrispettivo occidentale potrebbe essere lo status del divenire in Parmenide, per cui solo l'essere era veramente esistente ed era, di conseguenza, necessariamente immutabile ed eterno. Il divenire, in quanto mescolanza di essere e non essere non sarebbe potuto esser detto “esistente”,eppure è anche difficile sostenere che esso sia semplicemente non esistente come il non essere assoluto. La soluzione spesso adottata sta nel dire che māyā sia una potenza (śakti) o un attributo del brahman,ma essa rischia di essere più che altro un espediente, dato che non risolve l'ambiguità relativo alla condizione esistente/non esistente di māyā. Si pone inoltre il problema di come tale legame con māyā influenzi il brahman stesso. Se a māyā si lega infatti la materialità del mondo,l'illusione e l'ignoranza,si rischia che tali attributi vengano riferiti allo stesso brahman che è, in ultima analisi, il sostrato di māyā. Alcuni vedāntin replicano però spiegando che,poiché māyā è in ultima analisi illusione,essa non può effettivamente influire sul brahman.
In alcuni trattati teisti (per esempio nelle Mokṣakārikā scivaite),questa posizione vedāntica è criticata dicendo che sostenere che solo il brahman esiste equivalga a dire che esiste solo una materia incosciente. Il brahman impersonale, in altre parole,viene equiparato dai suoi detrattori al “tad” incosciente della formula upaniṣadica,a mera materia. Al contrario, nelle scuole scivaite māyā equivale alla potenza di libertà del Signore (che copre il ruolo occupato nell'Advaita Vedānta dal brahman, si veda il prossimo capitolo). Il mondo illusorio diviene in tale ottica il dispiegamento della volontà del Signore,la conseguenza della sua libertà.

9.2 Il rapporto fra brahman e mondo

Se il brahman è unico, qual è lo status del mondo? Secondo alcuni vedāntin (in particolare Gauḍapada, maestro del maestro di Śaṅkara), esso semplicemente non è, essendo sola illusione, come un sogno. Śaṅkara presenta una teoria più complessa e adopra in merito la similitudine di un riflesso in uno specchio. Il riflesso non è reale,poiché solo l'oggetto lo è,ma non è nemmeno completamente falso e irreale come per esempio un unicorno (l'esempio indiano è quello di un fiore nel cielo). Pure usata è la metafora di corda e serpente. Questo è un esempio spesso citato di conoscenza erronea e allude al caso in cui qualcuno scambi una corda per un serpente e se ne spaventi. Similmente,il mondo molteplice e diversificato non esiste realmente, non ostante noi reagiamo a esso (ovviamente sorge così il problema di come definire quanto è doppiamente illusorio, per esempio, all'interno della nostra realtà già illusoria, un'illusione, ma per questo si veda poco sotto).
La molteplicità sarebbe così solo il risultato di un'erronea sovraimposizione sull'unico brahman. Rispetto alla rappresentazione sāṅkhya di un'unica prakṛti che dà luogo a tutti i successivi ventitré principi,il brahman resta unico e non evolve realmente. Non c'è alcuna trasformazione reale del brahman nel mondo,ma solo un'illusoria trasformazione (vivarta). Poiché però il mondo appare ai nostri sensi come diversificato, ne consegue la distinzione fra diversi livelli, solo l'ultimo dei quali si rivela essere,in ultima analisi,reale:
•livello apparente, quello assolutamente falso di illusioni, sogni, miraggi e
simili
•livello mondano,quello della nostra esperienza ordinaria
•livello supremo,quello dell'unico brahman

9.1 L'influenza upaniṣadica nella definizione di brahman

Tornando all'argomento di questo corso, il Vedānta prende le mosse dalle Upaniṣad e, nel caso che ci interessa, dal detto “tat tvam asi” (letteralmente “quello sei tu”). Distingue perciò un principio “tat” e uno “tvam”,ossia mondo oggettivo e mondo soggettivo. Le varie scuole vedāntiche si dividono poi sul modo in cui la relazione fra questi due viene intesa. Aun estremo troviamo il Vedānta monista di Śaṅkarācārya (anche solo “Śaṅkara”,vissuto forse nell'VIIIsecolo d.C.). Per lui, l'unica realtà effettivamente esistente è il brahman. Il brahman è identificato,secondo un altro detto upaniṣadico,come “sat,cit,ananta”,ossia “[realmente] esistente,coscienza,infinito”. Èsat in quanto esso solo realmente esiste,mentre l'apparente molteplicità che si propone ai nostri occhi non è che la sua māyā, la sua magia. Poiché è coscienza, è anche l'unico elemento coscienziale realmente esistente, l'unico vero pensante di tutti i nostri pensieri che, quindi, solo illusoriamente pensiamo essere distaccati e privati. Poiché è infinito,non tollera limitazione e non può quindi nemmeno essere definito in senso proprio,giacché ogni definizione sarebbe una limitazione. Si può perciò immaginare il brahman solo negando degli attributi da riferirvi e non attribuendoglieli positivamente. Esso, in altre parole,NONè finito,perituro,sofferente etc.;ma non si può dire che sia in senso stretto “beatitudine”,poiché ciò implicherebbe l'esclusione della non beatitudine e contraddirrebbe quindi l'infinità del brahman. Successivamente,però, la triplice aggettivazione sat, cit, ananta viene mutata in sat, cit, ānanda, ossia “esistente-cosciente-beatitudine”. La possibile difficoltà nell'attribuzione della beatitudine al brahman viene risolta sostenendo che il brahman è essenzialmente beatitudine e che duḥkha,il dolore,è solo illusoria creazione umana.

9 Le scuole vedāntiche

Il testo fondamentale del Vedānta è il Vedāntasūtra, ma abbiamo già accennato a come altri testi abbiano pure un ruolo decisivo nella storia di questa scuola. Si tratta da una parte delle Upaniṣad, dalla cui esegesi sorge il Vedānta e dall'altra della Bhagavadgītā, il brano in versi del Mahābhārata in cui è ritratto il dialogo fra Kṛṣṇa e Arjuna prima della battaglia di Kurukṣetra. Le varie scuole vedāntiche cui accenneremo si identificano ciascuna attraverso un proprio bhāṣya non solo al Vedāntasūtra, ma anche alla Gītā.

8.3.1 Il problema dell'esistenza degli aggregati

Gli aggregati impermanenti che sono oggetti della nostra esperienza ordinaria sono detti avayavin (interi) poiché consistono di avayava (parti). Tali parti sono generalmente composte di un singolo elemento (per esempio, una zolla di terra sarà fatta di atomi di terra), ma è possibile che vi si mescolino ulteriori elementi (come un cucchiaio di terra sciolto in un ampolla d'acqua). Tali interi sono per i Vaiśeṣika realmente esistenti al di là e al di sopra delle parti che li compongono e che ne sono la causa. Esempi standard di ciò sono il vaso o il tessuto. I vasai indiani producevano prima due metà vaso e poi le riunivano. Dicono i Vaiśeṣika che le due parti del vaso sono la causa del vaso intero e che il vaso intero inerisce in ciascuna delle parti. Similmente,un tessuto finito inerisce in ciascuno dei fili che lo compone e che ne è la causa. Un pubblico poco avvezzo alle categorie Vaiśeṣika potrebbe obiettare che il vaso intero non può inerire in una sua parte (dato che questa ne costituisce,appunto,solo una parte),ma la relazione di inerenza è definita proprio come la relazione fra due entità che pur essendo distinte esistano simultaneamente e in effetti il tutto, pur essendo distinto dalle sue parti non può esistere indipendentemente da queste. In proposito, può essere opportuno ricordare che l'inerenza è una relazione asimmetrica, al contrario del contatto o dell'identità. L'effetto (il vaso intero) inerisce nella causa (le due metà del vaso), ma non viceversa. Pertanto, il vaso e il tessuto sono una sostanza a sé, con proprie qualità (per esempio un determinato colore) e relazioni e diversa dalla somma delle sue componenti. Tale sostanza finale non è né atomica né onnipervadente, ma mediana. Mentre atomi e sostanze onnipervadenti sono eterni, le sostanze mediane, create dall'aggregazione di atomi, sono periture, poiché l'aggregazione di atomi può distruggersi. Gli atomi si riuniranno poi in nuove aggregazioni e non saranno di per sé mai distrutti.
È facile però immaginare come l'affermazione dell'esistenza di un tutto al di sopra delle parti sia contestata dai Buddhisti, per i quali un aggregato non esiste come qualcosa di nuovo rispetto alle parti che lo compongono, così come un bosco non esiste a prescindere dagli alberi che lo compongono. I Vaiśeṣika si oppongono a tale reductio ad absurdum logica sostenendo che, di fatto, il mondo è composto da aggregati ben distinguibili dagli atomi che li compongono, ma si trova ad affrontare obiezioni come le seguenti (per cui si veda (2): 75-9), a opera soprattutto del campione della scuola epistemologica buddhista, Dharmakīrti:
•Se il tutto è diverso dalla somma delle sue parti, perché pesa esattamente quanto la somma delle parti?
•Se il tutto non è un agglomerato di parti, com'è possibile che un unico oggetto, per esempio un panno, sia in parte rosso, in parte azzurro, in parte giallo? Il colore “rosso” inerisce all'oggetto “panno” oppure no?
La posizione media nell'Occidente contemporaneo sembrerebbe a prima vista più simile a quella buddhista che a quella vaiśeṣika e ci si potrebbe chiedere perché i Vaiśeṣika si adoprino tanto per difendere una posizione che dà luogo a una serie
di paradossi. Il punto è che la posizione buddhista,d'altra parte, apre immediatamente la strada all'idea che gli aggregati cui la nostra esperienza comunemente si riferisce siano solo costrutti mentali. Ossia, si rischia di giungere all'idea che solo gli atomi siano reali e non gli oggetti da questi composti. Indi, si potrebbe pensare che anche gli atomi siano, similmente, costrutti mentali e che quindi in ultima analisi l'intero mondo esterno non sia che un prodotto mentale (si pensi alla celebre affermazione di Russell: “Il realismo diretto porta alla fisica,la quale mostra che il realismo diretto non funziona. Quindi, il realismo diretto è falso.”).
Il realismo vaiśeṣika non potrebbe tollerare nessuno di questi passaggi ciascuno dei quali si è poi effettivamente realizzato nella storia del Buddhismo.
La posizione Vaiśeṣika si oppone però anche a quella del Sāṅkhya. Si ricorderà infatti che secondo il Sāṅkhya tutto il mondo materiale è un'evoluzone di prakṛti. Quindi,in senso stretto,nulla di nuovo viene creato. L'effetto è già totalmente presente, seppur in potenza,nella sua causa e prakṛti contiene,in nuce,la possibilità di dar luogo all'intero mondo. Invece, secondo il Vaiśeṣika, l'unione di più atomi dà luogo a qualcosa di assolutamente nuovo,che non preesisteva nelle sue cause. L'autore del Nyāyasūtra (ho già spiegato come il Nyāya tenda ad assorbire il Vaiśeṣika per riempire la casella corrispondente a quello che definisce “oggetto conoscibile”) spiega infatti che l'esistenza di aggregati distinti dalle loro parti è inferibile per il fatto che possiamo tirare a noi un vaso o un tessuto senza che se ne stacchino le parti. Quest'ultimo punto apre un tema critico nell'ontologia Vaiśeṣika: come distinguere fra un oggetto che sia un tutto unico al di sopra delle parti e un semplice accostamento di oggetti diversi? Perché le due metà formano un vaso mentre un vaso e l'acqua al suo interno non formano un nuovo oggetto distinto (su questo punto,si veda (2): 78-9)?
I singoli atomi sono increati ed eterni. Secondo il Vaiśeṣikasūtra, essi sono troppo piccoli per essere percepiti e devono essere inferiti dai loro effetti,gli oggetti della nostra esperienza quotidiana. Non hanno qualità (le quali ineriscono solo negli oggetti da questi composti) e sono meri particolari. Secondo il Vaiśeṣika, il più piccolo aggregato è composto dalla congiunzione di due atomi (o diade),mentre l'aggregato più piccolo visibile è la particella di polvere (di quelle che possiamo vedere galleggiare nell'aria controluce),composta da tre diadi di atomi. Tali numeri fanno capire che anche l'approccio apparentemente da fisica classica del Vaiśeṣika contiene un che di arbitrario (perché proprio tre diadi? La fisica contemporanea ha in effetti mostrato che gli atomi sono ben più piccoli di così). L'aspetto più interessante, però, per mostrare la diversità di paradigmi fra Europa e India, sta proprio nel fatto che le critiche rivolte ai Vaiśeṣika non si situino su questo piano, bensì, al contrario, vertano sull'insostenibilità LOGICA di tale approccio. Dice per esempio il buddhista Vasubandhu (circa Vsecolo d.C.) che se gli atomi hanno estensione, allora non sono le particelle ultime (poiché è sempre possibile immaginare di dividerli ulteriormente). Se invece non hanno estensione, allora non dovrebbe avere estensione nemmeno una diade di atomi e così via. Perché sommando particelle senza estensione non si arriva mai a un corpo esteso! La risposta Vaiśeṣika è empirica;per evitare un regressus ad infinitum è necessario postulare delle particelle ultime. Per inciso, tale paradosso è risolvibile nella matematica moderna mediante l'idea newtoniana degli infinitesimi, mentre l'ambiguità della natura dell'atomo (è o non è materia?) più che essere risolta è stata ipostatizzata dalla fisica successiva a Einstein.

8.3 Le sostanze nel Vaiśeṣika

Le sostanze sono poi dette essere nove:
•terra
•acqua
•fuoco
•aria
•etere
•tempo
•spazio
•sé (ātman)
•mente

Le prime quattro esistono sotto forma di atomi eterni e di aggregati impermanenti. L'etere non è direttamente percepito, bensì inferito in quanto sostrato della qualità suono,giacché ogni qualità deve necessariamente avere un sostrato (altre scuole risolveranno il problema sostenendo che il suono sia una sostanza,ma questo causa altre difficoltà,fra cui quella di come il suono-sostanza possa esser colto dall'organo uditivo, oltre all'asimmetria rispetto a gusto, odore, colore e qualità tattili). Dal momento che il suono può sorgere ed essere percepito dovunque, l'etere è pensato come unico e onnipervadente. Esso è quindi unico, onnipervadente ed eterno, come tempo, spazio e sé (ātman). Isé sono infatti ristretti a un corpo individuale, nel Vaiśeṣika classico,solo perché il loro tramite conoscitivo,manas, a sua volta eterno,ma atomico,è connesso a un singolo corpo. È però ipotizzabile che nel Vaiśeṣika preclassico l'ātman avesse un'estensione limitata al corpo e ne costituisse perciò il principio animatore responsabile di ogni attività fisica.
Così dicendo abbiamo alluso all'esistenza di due sottogruppi:
•terra,acqua,fuoco,aria,mente
•etere,tempo,spazio,sé
Il primo comprende sostanze atomiche e in grado di muoversi (in cui cioè può inerire un'azione –ciò non significa che esse siano di per sé in grado di muoversi volontariamente). Il secondo comprende invece sostanze in cui non può inerire alcuna azione. Esse sono infatti già onnipervadenti e non possono quindi agire giacché ogni azione prevede uno spostamento e non è quindi possibile nel caso di sostanze che già pervadono tutto.

8.2 L'aggiunta di una settima categoria

Tale elenco basico di padārtha sarà nei secoli al centro di accese discussioni. Una di queste riguarda l'ammissione di un settimo padārtha, chiamato abhāva, o assenza. Il problema alle spalle di tale ammissione è la possibilità logica di spiegare l'assenza solo nei termini della negazione di una presenza. Secondo le scuole buddhiste e i Prābhākara Mīmāṃsā, ciò è possibile, secondo al contrario Naiyāyika, Bhāṭṭa Mīmāṃsaka e Vaiśeṣika più tardi, l'assenza è un di più che non può essere spiegato solo nei termini di una non presenza. Sul piano epistemologico, l'esempio tipico è quello dell'assenza di un vaso dal pavimento. Un uomo entra in una casa e nota immediatamente l'assenza di un vaso dal pavimento. È possibile dire che in realtà egli ha semplicemente visto la superficie del pavimento? Sì e no, poiché la superficie del pavimento, di per sé potrebbe far pensare all'assenza di infiniti altri oggetti, mentre la persona in questione ha immediatamente colto l'assenza proprio di un vaso (che magari era stato in quel luogo del pavimento fino al giorno prima).

Come definire l'esistenza della categoria “assenza”, che per i suoi sostenitori essa esiste come elemento reale? Nel Nāvyanyāya si parla perciò di esistenza concreta (sattva), come inerente solo nelle prime tre categorie, di “essere” in generale (astitva) come dharma di tutte e di presenza (bhāva) per le prime sei, contrapposte ad abhāva che ne è la negazione.

giovedì 23 ottobre 2008

8.1 I padārtha

Elenco dei padārtha:
• dravya (sostanza, esiste indipendentemente)
• guṇa (qualità, esiste solo in quanto inerisce in una sostanza)
• karman (azione, esiste solo in quanto inerisce in una sostanza)
• sāmānya (generalità)
• viśeṣa (specificità)
• samavāya (inerenza)
Secondo il Vaiśeṣika, queste sono le categorie di base irrinunciabili per spiegare il reale.Le sostanze sono il sostrato di qualità e azioni. Le qualità ineriscono necessariamente nelle sostanze (l'esempio tipico è l'azzurro che inerisce in un certo vaso). Esse sono qualità individuali irripetibili (come irriperibilie è questo particolare azzurro) che rappresentano particolarizzazioni secondo spazio e tempo diqualità astratte come un certo colore (l'azzurro) o sapore. Sāmānya è l'equivalente vaiśeṣika dei nostri “universali” ed è considerato indispensabile per rendere conto di come mai riconosciamo ogni mucca come “mucca”. Viśeṣa, al contrario, ci permette di riconoscere ogni individuo in quanto tale. Esso è la causa dell'irriducibile differenza fra singoli individui, come stabilito in (Halbfass). Tale differenza è irriducibile nel senso che vale anche fra singoli atomi, i quali quindi potrebbero essere distinti da chi avesse una vista abbastanza acuta. Al contrario, come vedremo, dell'Advaita Vedānta, quindi, il Vaiśeṣika prende sul serio la distinzione e l'individualità. Ciò deriva, penso, dal suo prendere sul serioil reale in linea di principio prescindendo dall'osservatore. Infine, samavāya è la relazione che lega un guṇa, un karman, un universale e una specificità al suo sostrato, ossia al dravya in cui inerisce. Essa può legare anche un universale a una qualità o a un'azione e, infine, lega un individuo composto (si veda sotto “Il problema dell'esistenza degli aggregati”) alle parti di cui è costituito e che ne sono la causa. Come nella filosofia occidentale, l'inerenza pone vari problemi, specie all'interno di un approccio che vorrebbe essere corrispondentista (ossia descrivere il mondo così com'è, indipendentemente dall'osservatore). Anzitutto, c'è il rischio di un regressus ad infinitum. Infatti, se c'è bisogno dell'inerenza in quanto relazione che lega, per esempio, un universale a una sostanza, cosa legherà l'inerenza stessa a universale e sostanza? Se si postula un secondo tipo di inerenza per questi casi, si avrà poi bisogno di un terzo tipo che leghi tale inerenza di secondo livello e così via. Simili problemi si darebbero se nell'inerenza dovessero inerire ulteriori categorie (per esempio universali o specificità). Praśastapāda risolve tali possibili difficoltà spiegando che l'inerenza non ha bisogno diessere legata da un'ulteriore inerenza agli elementi che lega poiché è collegata a questi da una relazione di identità assoluta (tādātmya) –che quindi non necessita di ulteriori legami. Poiché poi esiste un'unica inerenza, in essa non inerisce alcun universale né alcuna specificità. Quanto poi al possibile problema di cosa accada dell'inerenza quando vengono meno gli oggetti che lega, Praśastapāda risponde che l'inerenza non ne è toccata. Essa è come una colla, che può attaccare due cose fra loro, ma che rimane tale anche quando le due cose non esistano più. Sāmānya, viśeṣa, samavāya (e abhāva, si veda sotto) sono categorie ontologicamentedistinte e costituiscono aspetti del mondo irriducibili ad altri. Però, al contrario delle prime tre categorie, essi possono essere sostrato solo di proprietà astratte (dette dharma) e non di entità ontologicamente fondate (come sostanze, qualità o azioni). Fra tali entità ontologicamente fondate c'è lo stesso universale (sāmānya) “esistenza” (bhāva o sattva) che, quindi, inerisce solo nelle prime tre categorie e non in se stesso. Le ultime tre o quattro categorie, quindi, possonosolo avere la funzione di soggetti astratti (dharmin), non hanno esistenza concreta. Per definire però il fatto che anch'esse in qualche modo esistono si dice che inesse inerisce la proprietà (dharma) astitva (è-ità), che è un universale che inerisce in se stesso. Che però entità astratte e concrete convivano in uno stesso elenco potrebbe portare a pensare che le prime tre categorie facciano parte di un elenco più antico e legato all'aspetto prettamente fisico-naturale del Vaiśeṣika, mentre le ultime tre o quattro siano dovute all'influsso dell'approccio epistemologico delNyāya, per il quale le categorie sono tali soprattutto in quanto per PENSARE ilmondo ne abbiamo necessariamente bisogno. Anche se le scuole non buddhiste restano complessivamente ferme nel postulare che pensare il mondo equivalga apensarne caratteristiche esistenti a prescindere dal soggetto.

8 L'approccio fisico del Vaiśeṣika

Le prime fonti che abbiamo sul Vaiśeṣika sono il Vaiśeṣikasūtra e il commento a opera di Praśastapāda, detto Vaiśeṣikabhāṣya. Già all'epoca della composizione di questo, però, alcuni aforismi del Vaiśeṣikasūtra dovevano apparire poco comprensibili, perché non sono direttamente commentati. Esiste quindi una storia antica del Vaiśeṣika cui abbiamo scarsamente accesso, ma che può essere in parte ricostruibile tornando al Vaiśeṣikasūtra e ricostruendola da fonti secondarie che ne parlino. È per questo che in quanto segue farò ogni tanto riferimento a un possibile stadio precedente quello classico, che è l'oggetto principale della mia esposizione. Secondo le ricostruzioni di un celebre storico della filosofia indiana, l'austriaco Erich Frauwallner, il Vaiśeṣika raccogli elementi filosofici molto antichi. I suoi inizi precedono la sistematizzazione del Nyāya e la diffusione dell'approccio cheabbiamo chiamato epistemologico alla natura. Il Vaiśeṣika antico, quindi, è interessatoalla natura in quanto fenomeno fisico e cerca di comprenderla indipendentementedal suo ruolo per l'osservatore (al contrario, seppur per ragioni diverse, di Nyāya e Sāṅkhya). La classificazione del reale offerta dal Vaiśeṣika può quindi apparirci molto più “scientifica” nel senso che prescinde dal ruolo del soggetto osservatore e pretende di descrivere con distacco il proprio oggetto. La chiave di tale classificazione è la distinzione in padārtha, o categorie. Queste sono, come per Aristotele e al contrario che in Kant, categorie ontologiche ossia realmente esistenti, anche se in modo diverso.

7.2 Il Nyāya

La scuola del Nyāya ha come suo testo fondamentale il Nyāyasūtra, di Gautama, commentato da Vātsyāyana nel suo Nyāyabhāṣya. Dei vārttika sono invece presenti nel successivo commento, chiamato appunto Nyāyavārttika e opera di Uddyotakara.
Il Nyāya si occupa di natura a partire dal proprio interesse per l'epistemologia. Allo scopo di raggiungere la liberazione, spiega infatti il Nyāyasūtra, testo base del Nyāya, è necessario conoscere correttamente. Il Nyāya si dedica perciò all'analisi degli strumenti conoscitivi (pramāṇa). Il mondo naturale trova posto nella categoria del prameya, ossia del contenuto conoscitivo. La conseguenza implicita è che il mondo esiste solo in quanto è significativo e per essere significativo deve essere conosciuto. Ma le categorie per conoscerlo sono quelle che il nostro intelletto vi impone. Non c'è perciò spazio per l'incanto estetico della natura né per un'esperienza della natura che soverchi l'uomo, come, in Occidente, nel caso dell'esperienza del sublime.
Le conseguenze dell'approccio epistemologico alla natura potrebbero essere enormi. Si potrebbe per esempio ritenere che il mondo esterno non abbia esistenza propria a prescindere da chi voglia conoscerlo. Tuttavia, tale portato è moderato o forse del tutto annullato dal fatto che il Nyāya sostenga quello che è stato definito ((? ):52 et passim) un “realismo epistemologico”. In altre parole, si giunge al mondo esclusivamente per il tramite della cornice epistemologica, per cui ogni elemento è ricondotto alle categorie di “soggetto conoscente” (pramātṛ),“strumento conoscitivo” (pramāṇa) e “oggetto conoscibile” (prameya). Tuttavia, si presuppone che quanto conosciuto sia anche effettivamente esistente (astitva jñeyatva “esistere è essere conoscibile”) e che gli strumenti conoscitivi riconosciuti dalla scuola permettano di discernere, all'interno del mondo fenomenico, ciò che realmente esiste da ciò che pare esistere solo a chi è in errore (magari per non aver studiato Nyāya).
Ho già accennato a come il Nyāya e il Vaiśeṣika tendano a fondersi in un'unica scuola. Di fatto, il Nyāya assorbe il Vaiśeṣika all'interno della propria cornice epistemologica, adottando l'ontologia Vaiśeṣika come spiegazione di cosa siano gli “oggetti conoscibili” (prameya).

7 L'approccio epistemologico del Nyāya: 7.1 Ruolo dell'epistemologia in India

Parleremo ora dela natura nella filosofia indiana all'interno di una cornice epistemologica, perché tale è l'approccio indiano ai problemi. Infatti, mentre in Occidente l'epistemologia è una branca specializzata della filosofia, in India una premessa epistemologica è indispensabile all'inizio di qualsiasi trattato, di qualunque argomento tratti.

mercoledì 22 ottobre 2008

6.8 L'attività psichica come prakṛti e sue conseguenze. Yoga

La scuola dello Yoga come espressa nello Yogasūtra di Patañjali e nello Yogabhāṣya deriva la stragrande maggioranza dei propri fondamenti dal Sāṅkhya come espresso nelle SK. Esso mira perciò a disciplinare al nostro interno prakṛti, nei suoi aspetti fisico e psicologico allo scopo di realizzare la separazione fra prakṛti e coscienza. Di conseguenza, al contrario di uno degli assunti comuni nell'Occidente contemporaneo, ci troviamo di fronte a una sostanziale diffidenza nei confronti dell'attività psichica, specie nel suo aspetto generativo. La proliferazione mentale (di cui fa parte l'immaginazione, che abbiamo imparato a celebrare soprattutto dal Romanticismo in poi) è pensata come un'attività automatica di prakṛti, incosciente e quindi da frenare per potersi dedicare alle attività psichiche superiori (il discernimento tipico dell'intelletto) o, meglio, per poter creare la quite necessaria a che il puruṣa, il “testimone”, veda la natura e scopra così di esserne libero. La stessa idea ricorre in gran parte delle pratiche meditative del Buddhismo antico.

6.6.1 I guṇa nella cultura indiana

Da notare è anche come nessuno dei tre guṇa sia in sé positivo o negativo, dato che tutti e tre sono momenti di prakṛti. Negativo è solo il loro disequilibrio. Questa diverrà una chiave interpretativa ricorrente nella filosofia e più in generale nella cultura indiane, che spesso leggerà ogni fenomeno sulla base di tale tripartizione. Così in medicina, gli umori sono riconosciuti come sattvici (per esempio la lucidità), rajasici (l'attività, l'eccitazione) o tamasici (la depressione, l'ottusità, il sonno). Da tale accenno si capisce come abbiamo bisogno di tutti e tre (sattva è quello che permette di discernere con chiarezza, rajas è indispensabile per poter intraprendere una qualsiasi attività, tamas è necessario alla sera per poter riposare). Similmente, esistono cibi a prevalente tendenza sattvica, rajasica o tamasica, e così musiche, colori, opere d'arte, esperienze in genere. Yoga e Ayurveda soprattutto insegnano a commisurare tali esperienze ai propri scopi. Una musica sattvica non andrà ascoltata per addormentarsi, una rajasica non favorirà il raccoglimento mentale e così via.

6.6 I guṇa

La natura è costitutita di tre guṇa (letteralmente “fili” rispetto a una corda, ma anche “qualità” rispetto a una sostanza, in ogni caso, il termine indica qualcosache non esiste indipendentemente, ma colora di sé la sostanza in cui inerisce):
• sattva (soddisfazione, sukha)
• rajas (frustrazione, duḥkha)
• tamas (confusione, moha)
Da un disequilibrio fra queste tre deriva l'attività di prakṛti. L'attività è quindi la risposta a uno squilibrio, all'uscita da uno stato di equilibrio ed è quindi intrinsecamente negativa (notiamo qui uno degli stereotipi che accompagnano di solito l'India, ma, spero, con maggiore profondità).

6.5 Liberazione

La liberazione (mokṣa o kaivalya, letteralmente “isolamento”) equivale per il Sāṅkhya proprio al riconoscimento della separazione da sempre e per sempre di prakṛti e puruṣa. Ciò significa che di fatto non “avviene” alcuna liberazione. La liberazione è solo il riconoscimento di uno stato che già era presente ab aeterno. Come però può avvenire tale riconoscimento? Ciascuno di noi in quanto puruṣa è in realtà già libero, ma noi in quanto esseri individuali ci crediamo legati perché ci pensiamo individuati in un corpo fisico, ci riconosciamo in quanto “io”, ossia siamo all'interno del quarto principio, o ahaṅkāra. L'inattività del puruṣa fa sì che, di fatto, per riconscere che siamo da sempre liberi possiamo contare solo su prakṛti. È questa che, allo stesso tempo, ci imprigiona e ci libera. In quanto “io” individuali siamo parti di prakṛti e quindi suoi prigionieri, ma in quanto essenzialmente coscienza siamo da sempre e per sempre liberi. Dobbiamo solo acquisire coscienza di tale stato e quindi della separazione eterna fra noi (non in quanto “io” individuali, bensì come pure coscienze) e prakṛti. Possiamo realizzare tale separazione nel momento in cui prakṛti ci si mostra e vediamo quanto essa sia diversa dal nostro esser coscienza. Prakṛti è quindi il nostro carceriere, ma anche l'impresaria di uno spettacolo grandioso (l'intera creazionee il suo dispiegarsi) che ha come unico scopo quello della nostra liberazione. Il suo mostrarsi a noi nella sua creatività ha infatti appunto lo scopo che noi prendiamo coscienza del nostro essere differenti. Ci si potrebbe chiedere perché prakṛti operi in direzione della nostra liberazione. In senso stretto, prakṛti non opera a tale scopo poiché, in quanto incosciente, non ha scopi. Tale è però la natura delle cose, da sempre.

6.4 Natura e soggetività

Chiarita la non materialità dei primi 20 principi è opportuno soffermarsi anche sui principi più sottili, intelletto, senso dell'io e mente. La mente (manas) indica in filosofia indiana il senso interno, quello tramite il quale cogliamo per esempio il piacere o il dolore. In Sāṅkhya, in particolare, ha uno status ambivalente, perché è anche una facoltà d'azione, nel senso che coordina le facoltà d'azione, fungendo da tramite per l'intelletto. Tutto ciò significa che il puruṣa, pur essendo pura coscienza (o anzi, proprio per questo) letteralmente non pensa nel senso di produrre pensieri. Egli è, come già detto, intrinsecamente in quiete e quindi non produce nuovi pensieri, è invece coscienza limpida, testimone (sākṣin) di quanto accade in prakṛti, nel suo aspetto psichico e fisico. La pluralità dei puruṣa non corrisponde perciò a un loro essere soggettivamente diversi. Ciascuno dei puruṣa non è che pura coscienza. Quindi, tutto quanto noi generalmente leghiamo alla soggettività e all'attività cosciente è invece, secondo il Sāṅkhya, parte di prakṛti. Ricordo in proposito che la caratteristica di prakṛti èl'attività e la generatività; è prodotto di prakṛti, quindi, anche la generazione di nuovi pensieri. Di conseguenza, il discernimento (adhyavasāya) è proprio del più sottile dei principi, buddhi, presso il quale non è ancora presente una soggettivizzazione. Questa interviene come (errata) nozione di un io (abhimāna) nel gradino immediatamente seguente, quello di ahaṅkāra. Segue poi la coordinazione dei dati sensoriali, tipica di manas. Come può però puruṣa essere cosciente delle esperienze di cui può godere grazie a prakṛti? Anche se prakṛti non equivale alla materia, il dilemma è simileall'impasse cartesiano sui rapporti fra psiche e corpo. Se non c'è legame fra puruṣae buddhi/ahaṅkāra/manas, di che cosa è cosciente puruṣa? SK 21 non è una risposta sufficiente, perché in effetti il puruṣa non è solo storpio, è anche cieco e deve prendere in prestito da prakṛti anche gli occhi per vedere il mondo. Sua è solo la capacità di esser cosciente di quanto vede. In termini contemporanei, prakṛti fornisce i dati sensibili già elaborati dai sensi esterni, da manas e da buddhi, come un computer che trasformasse l'immagine di un vaso di fiori nei corrispondenti stimoli elettrici neuronali. Ma solo un soggetto cosciente può poi essere cosciente di conoscere tali dati, per cui la struttura fisica del cervello non basta da sola a spiegare il fiorire della coscienza. Testi sāṅkhya successivi alla Yuktidīpikā (che già però è consapevole del problema) descriveranno il rapporto fra puruṣa e le facoltà conoscitive attraverso la metafora di uno specchio. Puruṣa è lo specchio cosciente di quanto elaborato da buddhi. Esso non è perciò partecipe dell'attività di acquisizione ed elaborazione dei dati sensibili. Può però riceverli essendo esso stesso uno specchio che è, in più rispetto a uno specchio ordinario, conscio di quanto in sé riflesso.

6.3 Natura e spirito

La relazione fra natura e spirito è da sempre di copresenza, anche se non di reale contatto. Secondo alcuni autori (tale opinione è presente anche nella Bhagavadgītā), è la presenza dello spirito che spinge la natura a generare, pur se taleattività generatrice pertiene unicamente a questa. In effetti, il legame fra prakṛtie puruṣa è un punto critico della filosofia sāṅkhya. Come può infatti un puruṣa assolutamente inattivo e distinto dalla natura, influenzarla al fine di accumulare esperienze del mondo e, infine, raggiungere la liberazione? La risposta del Sāṅkhya è che in effetti puruṣa non entra affatto in rapporto con la natura. Essa agisce a vantaggio del puruṣa solo perché tale è l'ordine (non voluto da nessun Dio, ma semplicemente dato) delle cose(si veda SK 57 sulla metafora del latte edel vitello).

6.2 Natura e materia

Purusa e prakrti esistono al di fuori di spazio e tempo e sono increati e coeterni. Sono di conseguenza anche semplici, indivisibili, senza parti. La loro relazione è di copresenza, nel senso che esistono affiancati, per così dire (poiché in realtà non esistono nello spazio), ma senza entrare in rapporto. La pura coscienza è intrinsecamente inattiva, mentre la natura è intrinsecamente attiva. Essa è cioè intrinsecamente una natura naturans, costantemente generante e genera appunto i 23 principi al di sotto di sé. Questi sono ordinati, come accennato, dal più sottile al più grosso. Quindi, fino agli ultimi cinque si sta parlando ancora di funzioni o di qualità, a prescindere dalla loro materialità. L'opposizione fra prakṛti e puruṣa non è quindiun'opposizione fra psiche e materia. La natura naturans, ricordo, esiste al difuori dello spazio, che appare solo come ventunesimo elemento. Essa è appunto chiamata anche avyakta, o “immanifesto”, in contrapposizione ai successivi1023 principi che sono manifesti, vyakta. Solo poi i principi dal 21 al 25 occupanouno spazio fisico. Le facoltà sensoriali e le facoltà d'azione, invece, denominano una facoltà a prescindere dal suo locus fisico. La vista, cioè, esiste a prescinderedal suo localizzarsi nell'occhio fisico (il quale è costituito, come ogni corpo, daglielementi grossi) e così la mozione o la prensione. Un esempio forse immediatamenteevidente è quello del gusto, dato che è chiaro per tutti che la facoltà delgusto esista a prescindere dalla sua localizzazione materiale nella lingua, giacché è possibile perdere il senso del gusto pur mantenendo la lingua. Similmente, forma,colore, odore etc. esistono a prescindere dal sostrato materiale in cui poi letroviamo di fatto nel mondo. In breve, la natura primordiale NON è una sortadi materia primordiale aristotelica (o platonica, se si pensa all'artefice nel Teeteto). Essa va piuttosto pensata come attività incosciente contrapposta alla quietecosciente dello spirito.Spendo ancora qualche parola sull'ordine dei vari principi. Abbiamo già accennatoa come l'ordine vada dal più sottile al più grosso. A prima vista, però,potrebbe non essere chiaro perché l'udito sia più sottile della vista e così via. Nei testi di Sāṅkhya o sul Sāṅkhya che conosco non ho trovato una risposta precisa,vi propongo perciò una mia tesi. L'ordine dei cinque sensi si basa sull'ordine dei dati sensibili, il quale a sua volta si basa sull'ordine degli elementi grossi. Questi costituivano probabilmente un elenco preesistente e non è difficile capire che l'ariasia sentita come più sottile del fuoco e dell'acqua e che la terra sia considerata fratutti i principi il più grosso. Resta da chiarire la connessione fra elementi grossie sottili. Secondo una dottrina comune (a parte per alcuni distinguo riguardanti l'etere), che io sappia, a tutte le scuole indiane, l'etere è il sostrato del suono, il vento di suono e qualità tattile (giacché è possibile percepire l'aria come calda o fredda), il fuoco anche del colore, l'acqua anche del gusto, la terra di tutte le qualità. Quindi, secondo tale tesi, l'elenco non è stato elaborato a partire dai sensi in giù, bensì dagli elementi grossi in su e questo è il motivo per cui l'udito è il primo nell'elenco dei sensi, mentre nelle elencazioni più comuni in filosofia indiana il primo posto spetta alla vista. Tale precedenza della vista è anche evidente dalnome di “darśana” e da quello di pratyakṣa (percezione sensibile, letteralmente“relativo all'occhio”) e sākṣin (per cui si veda subito sotto).

6.1 I 25 principi

Sāṅkhya significa letteralmente “enumerazione” e il termine allude a una delle caratteristiche della scuola, ossia l'enumerazione di 25 principi (tattva). Di questi, i primi due sono
1) puruṣa, o “spirito”, la pura coscienza
2) mūlaprakṛti, la natura primordiale
Solo questi due primi principi esistono indipendentemente e sono per sempre separati l'uno dall'altra. I restanti 23 principi, in ordine dal più sottile al più grosso, sono evoluzioni di mūlaprakṛti. Questi sono:
3) intelletto (buddhi)
4) senso dell'io (ahaṅkāra)
5) mente come senso interno (manas)
seguono i sensi (buddhīndriya):
6) udito
7) tatto
8) vista
9) gusto
10) olfatto
seguono le facoltà di azione (karmendriya):
11) parola
12) prensione (pāṇi, letteralmente “mano”)
13) mozione (pāda, letteralmente “piede”)
14) escrezione
15) procreazione
poi, i cinque elementi sottili, oggetto dei sensi (tanmātra):
16) suono (śabda)
17) qualità tangibile (sparśa)
18) forma-colore (rūpa)
19) gusto
20) odore
infine, i cinque elementi grossi (mahābhūta):
21) spazio, etere (ākāśa)
22) vento, aria (vāyu)
23) fuoco
24) acqua
25) terra

6 prakṛti nel Sāṅkhya

Il Sāṅkhya è probabilmente il più antico fra i sistemi filosofici indiani. Elementi di Sāṅkhya si trovano già nelle Upaniṣad più antiche, e un sistema già definibile come “Sāṅkhya” è esposto nel Mahābhārata. La scuola viene poi sistematizzata successivamente (ed è a questo livello che faremo riferimento qui), ma elementi di filosofia sāṅkhya restano inoltre in gran parte dei sistemi indiani, dallo Yoga (che si basa completamente sulle Sāṅkhyakārikā) al Vedānta e alle scuole scivaite (per cui rimando alla quarta lezione).
Tornando al Sāṅkhya come sistematizzato in testi che si occupino direttamente di filosofia, abbiamo accennato a come ogni scuola assuma come proprio fondamento un testo aforistico, che poi le generazioni successive di appartenenti alla scuola commentano. Il testo base del Sāṅkhya si chiama Sāṅkhyakārikā (“Le Strofe del Sāṅkhya”, di Īśvarakṛṣṇa, d'ora in poi SK) e il suo principale commento, la Yuktidīpikā (“La lampada del ragionamento”, di Rajana Gopalaka)contiene in sé sia il livello vārttika (commenti in frasi brevissime e sintetiche, quasi aforismi essi stessi e non sempre di facile comprensione) sia quello bhāṣya (commento esteso).
Anche all'interno del Sāṅkhya esistono varie correnti, quanto segue verrà esposto a partire dal punto di vista delle Sāṅkhyakārikā, così come interpretate dalla Yuktidīpikā. Il doppio riferimento è necessario perché gli aforismi fondanti delle varie scuole sono spesso estremamente oscuri senza un commento che ne orienta quindi decisamente l'interpretazione.

5 L'approccio indiano alla “natura”: quattro approcci fondamentali

Rispetto al tema della natura possiamo immaginare una distinzione ideale fra quattro approcci fondamentali:
–l'approccio soteriologico del Sāṅkhya, per il quale la natura è un'entità unica ed è contemporaneamente strumento di prigionia e di salvezza.
–l'approccio fisico del Vaiśeṣika antico, per il quale la natura è il principale oggetto di indagine ed esiste indipendentemente dal suo osservatore come natura naturata, senza distinzione a priori fra mondo organico e inorganico
–l'approccio epistemologico del Nyāya, per cui la natura è l'ambito di indagine di chi la osserva,
–l'approccio illusionistico del Vedānta, per cui il mondo della natura non è che un aspetto dell'unico brahman (illusionistico è anche l'approccio di molte scuole buddhiste, che però tendono invece a legare l'illusione ad aspetti soggettivi).
Fra le altre scuole, lo Yoga si conforma al Sāṅkhya, mentre la Mīmāṃsā adotta l'approccio del Nyāya unito ad alcuni elementi del Vaiśeṣika.

4.1 Il caso del Buddhismo

Le scuole buddhiste rappresentano un caso più complesso all'interno della filosofia indiana. Esse sono infatti variamente legate al retroterra culturale vedico e “induista” e allo stesso tempo tendono a formare una rete di scuole specializzate. In linea di massima, è difficile affermare in generale quanta parte della cultura espressa da autori non buddhisti facesse parte di un retroterra culturale panindiano noto e magari accettato anche dai buddhisti. A impedire una generalizzazione giunge anche la diversa storia personale dei singoli autori buddhisti. Alcuni di loro sono vissuti in monasteri fin dall'infanzia e hanno quindi assorbito della cultura non buddhista solo la versione mediata da autori buddhisti. Altri invece giungono al Buddhismo convertendovisi, ovvero perché la propria famiglia si è da poco convertita (è il caso del kashmiro Śaṅkarananda) e recano quindi con sé la formazione classica delle classi alte non buddhiste (le conversioni al Buddhismo pare siano state molto più numerose nelle élites di brahmani e kṣatriya).
Come poi accadrà anche all'interno delle scuole teiste in seno al così detto Induismo (come è noto, quella di “Induismo” è nozione problematica, su cui si concentrano vari tentativi decostruzionistici), nelle università buddhiste tendono a evolversi una logica, una grammatica, un'epistemologia etc. propriamente buddhiste. Mentre però tale fenomeno resta sostanzialmente marginale in molti campi (molti autori buddhisti continuano per esempio a citare la grammatica di Pāṇini invece di quella di Candragomin), così non è nel caso dell'epistemologia. La scuola epistemologica buddhista, che assurge sul proscenio della filosofia indiana con Dignāga, nel v secolo d.C., diviene subito importante e influente, tanto da costringere sulla difensiva i campioni di Nyāya,Mīmāṃsā etc. Il motivo per questo diverso peso all'interno delle discipline buddhiste è facilmente intuibile alla luce del fatto che l'epistemologia è in India il presupposto per un discorso valoriale. Gli autori buddhisti non possono perciò utilizzare gli strumenti dell'epistemologia non buddhista, fortemente impregnati di un'ontologia non buddhista. Nell'epistemologia del Nyāya, per esempio, si dà per scontata l'esistenza di un soggetto unico delle varie cognizioni che ognuno di noi, sedicenti soggetti, identifica come proprie).
La questione dell'estensione del retroterra culturale panindiano all'interno di pensatori buddhisti è rilevante anche per quanto riguarda il Veda. Come già accennato, il Veda è trasversalmente accettato e riconosciuto dalle varie scuole “induiste”.
I buddhisti sono spesso, specie ai loro esordi, protagonisti di formidabili attacchi ad alcuni aspetti della cultura vedica, soprattutto la purezza castale e la violenza impiegata nei sacrifici. È tuttavia ancora oggetto di discussione se tale negazione si rivolgesse al Veda in toto, o solo ad alcune sue degenerazioni. Divinità vediche sono per esempio presenti nel corteggio del Buddha, e nei suoi discorsi contro la purezza castale il Buddha conclude spesso che “il vero brahmano” è invece chi soddisfa tutt'altri requisiti, in tal modo mostrando di non negare del tutto la categoria di brahmano, bensì di offrirne una diversa fondazione. Tutto questo viene in qualche modo riassunto dal mīmāṃsaka Kumārila, che dirà perciò che anche i Buddhisti riconoscono il Veda, una frase che certamente nessun buddhista sottoscriverebbe!

4 Il dibattito filosofico in India e le scuole

Secondo un uso invalso già in India e adottato in modo forse poco critico dalla quasi totalità degli interpreti occidentali, la filosofia indiana si articola in “scuole” (darśana, letteralmente “visione”, nel senso di Weltanschauung). Sempre secondo la tradizione indiana, le scuole ortodosse (ossia che riconoscono il Veda)
sono sei. A queste vanno poi aggiunte le varie correnti buddhiste e giainiste. Le sei scuole ortodosse sono secondo tale classificazione:
–Nyāya (da cui l'aggettivo Naiyāyika, che indica anche un pensatore che aderisca
alla scuola Nyāya)
–Vaiśeṣika (donde Vaiśeṣika)
–Mīmāṃsā (Mīmāṃsāka)
–Vedanta (Vedāntin)
–Sāṅkhya (Sāṅkhya)
–Yoga
La prima, il Nyāya, nasce da una tradizione di dibattiti ed è specializzata in temi di logica, dialettica ed epistemologia. A partire dal ix secolo circa sarà sempre più strettamente associata alla seconda, il Vaiśeṣika. Questo nasce come indagine fisico-ontologica sul mondo. I Vaiśeṣika elaborano, per esempio, una teoria atomistica. La Mīmāṃsā sorge invece dal desiderio di sistematizzare l'esegesi vedica e si focalizza soprattutto sulla porzione del Veda, i Brāhmaṇa, contenente le ingiunzioni sacrificali. Anche il Vedānta è legato al Veda, ma soprattutto alle Upaniṣad, in cui le ingiunzioni sacrificali sono lette a livello simbolico e prevale un approccio monista. Il Sāṅkhya sofferma la propria attenzione sulla classificazione di tutto ciò che esiste a partire dall'opposizione fondamentale fra una natura naturans, attiva e incosciente, e uno spirito passivo ma cosciente. Infine, lo Yoga applica la distinzione del Sāṅkhya fra natura e spirito alle proprie pratiche psicofisiche.
Spero di aver con questa brevissima presentazione evidenziato una caratteristica essenziale di queste scuole, ossia il loro presentarsi per così dire “a coppie”. Questo è ancor più vero se si osserva da vicino il metodo utilizzato, in quanto le coppie tendono a essere accomunate dall'adozione di un medesimo procedimento epistemologico (e abbiamo già visto come l'epistemologia costituisca nella filosofia indiana la griglia sulla quale si articolano tutti i discorsi valoriali). Avremo perciò tre coppie più che sei distinte scuole, intorno a tre distinte metodologie:
indagine umana (Nyāya e Vaiśeṣika), ermeneutica (Mīmāṃsā e Vedānta), separazione di natura e spirito (Yoga e Sāṅkhya).
Viceversa, singole scuole si dividono al loro interno, specie intorno a tesi più innovative di alcuni loro esponenti. Abbiamo perciò varie sottoscuole all'interno del Vedānta (da Śaṅkara alle scuole teiste), del Sāṅkhya (il Sāṅkhya ateo delle Sāṅkhyakārikā e quello teista della Bhagavadgītā...), dello Yoga, del Nyāya (in cui nel xiii secolo nasce una corrente che si autoproclama “Nuovo Nyāya”), della Mīmāṃsā (in cui si distinguono Bhāṭṭa Mīmāṃsā e Prābhākara Mīmāṃsā, oltre a figure di spicco cui viene attribuita una terza posizione, ossia Maṇḍana Miśra e Murāri Miśra).
Il discorso è ancora più complesso se si osserva come ognuna delle scuole si specializzi in un determinato ambito e tenda a prendere in prestito dalle altre quanto riguarda gli altri ambiti. Ognuna, specie in epoca postclassica, presenta cioè un sistema completo, ma tale sistema è spesso composto di mattoni eterogenei. Nel caso che conosco meglio, la Mīmāṃsā, troviamo le categorie del Vaiśeṣika, la soteriologia del Vedānta, un'epistemologia influenzata dal Nyāya... Questo non nega la presenza di specificità anche negli ambiti presi per così dire in prestito. Ogni scuola non prende in toto tutto un blocco argomentativo da un'altra, bensì si sforza di adattarlo al proprio contesto. Tuttavia, il procedimento è tanto ovvio che non ci sono reciproche accuse di plagio. Anzi, se di plagio si può parlare si deve dire che è un plagio generalizzato e che coinvolge tutte le scuole, ora su un argomento, ora sull'altro. Le regole esegetiche della Mīmāṃsā, per esempio, sono adottate anche alle altre scuole.
Inoltre, nell'India classica come in quella contemporanea la formazione dello studioso prevede la frequentazione di quasi tutti i sistemi, oltre a discipline ancora più transscolastiche, come la grammatica e la retorica. Un Naiyāyika, perciò, non è mai un Naiyāyika puro, che conosca solo il punto di vista della propria scuola. Egli avrà senz'altro studiato grammatica e metrica,ma anche Vaiśeṣika e Mīmāṃsā, e lo stesso vale per gli aderenti alle altre scuole.
In un certo senso, quindi, le “scuole” intese come organismi chiusi, non esistono. Esse sono, nelle parole di Daya Krishna, un “mito della storia della filosofia indiana”. Ma questo non toglie che, una volta capito che si tratta di correnti di opinione non mutualmente esclusive, il loro studio sia essenziale per enucleare le dinamiche interne alla filosofia indiana. In quel che segue, continuerò perciò a parlare di “scuole”, chiedendo agli ascoltatori di tenere a mente le premesse cautelative ora enunciate.
Infine, è necassaria anche una precisazione storica. Si è infatti spesso osservato come gli autori indiani tendano a privilegiare rappresentazioni orizzontali, astoriche degli argomenti che trattano e la stilizzazione delle “scuole” non fa eccezione.
Il panorama filosofico indiano non è stato infatti sempre e comunque dominato da queste stesse scuole. Anzi, Sāṅkhya e Vaiśeṣika, che secondo le ricostruzioni di Erich Frauwallner sono state le prime scuole filosofiche ad affermarsi come tali, tendono presto a perdere ogni ruolo autonomo e a essere rappresentate solo da autori poligrafi (e quindi non principalmente sāṅkhya o vaiśeṣika) o a comparire, in opere di avversari, come obiettori stereotipati.
Le scuole appaiono in primo piano in India molto più che in Occidente (dove pure esistono correnti come “Illuminismo”, “Neoaristotelismo”, “Positivismo”, “Filosofia Analitica” etc.), perché l'uso comune (quasi “l'etichetta”) in India prevede che la personalità del singolo pensatore sia messa in secondo piano. Gli autori tendono perciò non a presentare nuovi sistemi (come è generalmente accaduto nella filosofia moderna e contemporanea in Occidente), bensì a inserire le proprie innovazioni o riflessioni all'interno della scuola che si occupa dell'argomento corrispondente. Nella stragrande maggioranza dei casi, tale meccanismo è icasticamente espresso dal genere del commento. Tutti commentano, e ogni scuola progredisce attraverso successivi commenti ai propri testi radice, solitamente composti in aforismi detti sūtra.
Riassumendo, la classificazione in darśana offre alcuni vantaggi, ma va anche presa cum grano salis. Cominciando dai vantaggi, la classificazione in darśana consente di
• sottolineare la prevalenza dell'approccio di scuola rispetto alla personalità dell'autore nella filosofia indiana
• comprendere la letteratura secondaria sulla filosofia indiana, che presuppone tale classificazione
• comprendere le fonti indiane, che pure si autodefiniscono nei termini di tale classificazione.
I rischi sono invece legati al considerare i darśana:
• come sistemi chiusi e poco comunicanti (mentre invece si sviluppano proprio attraverso dialogo e interazioni
• come sistemi esclusivi (mentre lo stesso autore può scrivere testi afferenti a varie scuole e si è sicuramente formato in varie scuole)
• come sistemi astorici (mentre hanno un inizio, un'evoluzione e a volte anche una fine)

3 I mezzi per acquisire conoscenza

In India, un discorso epistemologico è presente all'esordio di qualsiasi trattato, a proposito di architettura o di grammatica o di qualunque altro argomento. All'inizio di ogni trattato ci si interroga infatti su quali siano i mezzi epistemici tramite i quali si è giunti alle conclusioni racchiuse nel trattato stesso. Seguono qui perciò alcuni cenni di epistemologia indiana, indispensabili per comprendere la cornice a partire dalla quale si parla di natura.
Fra i mezzi per acquisire conoscenza il primo in tutti gli elenchi è la percezione sensibile, accettata da tutte le scuole (tranne pochi scettici). Segue l'inferenza, nome che è più o meno largamente interpretato dalle varie scuole, ma che in generale indica il procedimento tramite cui partendo da una premessa a possiamo giungere a una conseguenza b, pur senza aver acquisito ulteriori dati sensibili.
L'esempio più citato è questo: Sulla montagna c'è fuoco perché c'è fumo. Come vedete, un esempio empirico, tratto dall'esperienza quotidiana e che non costituisce
un esempio di deduzione a priori. Anche questo mezzo conoscitivo è accettato da quasi tutte le scuole, tranne alcuni materialisti che pretendono di fondare tutto sulla percezione sensibile.
Il terzo strumento conoscitivo accettato da tutte le scuole, tranne Vaiśeṣika e scuola epistemologica buddhista, è la comunicazione verbale. Questa comprende sia i casi di comunicazione ordinaria come strumento per acquisire conoscenza (come questa lezione o la lettura di un libro), sia –soprattutto– i testi sacri. I testi sacri in India sono detti Veda. Sul piano filosofico, centrale è soprattutto la parte del Veda che si occupa di ingiunzioni sacrificali (i Brāhmaņa) e quella dedicata all'interiorizzazione del sacrificio o alla sua utilizzazione metaforica come chiave di lettura per il mondo (le Upaniṣad). Tali testi, eminentemente religiosi, sono essenziali anche sul piano filosofico perché le varie scuole li riconoscono come autorità epistemologica, ossia come strumento conoscitivo, specie riguardo quanto non può essere conosciuto tramite percezione diretta e inferenza, ossia nel nostro caso rispetto all'unitarietà della natura (si pensi a quanto scritto da I.Kant nella prima Critica circa l'idea di “mondo”), necessariamente ultrasensibile e al suo aspetto di natura naturans.

2 Premessa su alcuni a priori comuni a tutte le scuole indiane

Prima di introdurre in generale le scuole filosofiche indiane mi permetto un inizio in medias res annunciando alcuni temi trasversali alle riflessioni sulla natura, che approfondiremo man mano e su cui faremo il punto nella seconda parte del corso. premessa 1: reincarnazione e quindi continuità fra mondo umano-divino-animale (e, per alcune scuole, vegetale). Secondo praticamente tutte le scuole indiane, esseri umani, divini, animali sono accomunati dal loro vagabondare per il ciclo senza inizio delle rinascite. Esiste quindi una comunità di fondo contrapposta alla distinzione netta fra uomini e animali tipica della nostra visione giudaicocristiana (per cui solo l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio).
premessa 2: concetto di anādi, “senza inizio”, per cui la natura non ha un inizio (o se lo ha, è un inizio ciclico). Il ciclo delle rinascite non ha un inizio, né, sul piano della natura naturata, ha un inizio il mondo. Non esiste cioè un big bang né un
inizio della vita (se non, appunto, un inizio ciclico).
premessa 3: ahiṃsā come dharma comune alle varie scuole. La non violenza è sentita come un valore ovvio per tutte le scuole, anche se è poi diversamente fondata, e si rivolge ugualmente a uomini e animali. Più controverso è lo status delle piante.

1 Premessa su “natura”

Incomincio con qualche parola sul tema di questo breve corso. Poiché infatti immagino
che per la maggior parte di voi lo studio della filosofia indiana non costituisca l'interesse centrale, immagino che tale studio possa essere utile soprattutto per rendervi coscienti di possibili approcci alternativi a quanto sembra apparentemente scontato. In tal senso, pensare secondo le linee della filosofia indiana è un esercizio di ampliamento del pensiero al di fuori dei suoi confini abituali.
Comincio perciò ad accennare alla problematicità intrinseca dell'oggetto del corso. Così facendo spero di mettere in luce le nostre inconsce aspettative rispetto al termine “natura” e spiegare perché tali aspettative, nell'occuparsi di “natura” in India si riveleranno inevitabilmente inadeguate. “Natura” non è un concetto univoco. Non univoco è poi l'approccio a tale concetto, all'interno del quale potremmo distinguere grosso modo e anzitutto fra un intendimento medio e vago e uno losofico. Nel primo rientrano usi come “la difesa della natura”, “lo sfruttamento della natura”, “la natura in pericolo”, “amore per la natura” in cui “natura” indica più o meno consapevolmente animali e piante selvatici e il loro habitat. Diversa è l'accezione filosofica di natura. Nel mondo classico troviamo una distinzione di fondo fra l'aspetto di natura naturans e quello di natura naturata.
La seconda racchiude il mondo vegetale, animale (e spesso anche minerale) già dato, in atto, mentre la prima allude alla potenza generativa della natura, alla natura quindi come potenzialità. Nella nostra filosofia medievale la “philosophia naturalis” si sviluppa come ramo della filosofia distinto da trivio e quadrivio e copre soprattutto l'ambito della Fisica aristotelica, senza distinguere cioè fra quelli che oggi chiameremmo mondo organico e inorganico e utilizzando come punto di riferimento testi e non osservazione diretta. Infine, l'ottocentesca “filosofia della natura” (Naturphilosophie) considera la natura come un'entità unitaria . Essa trova le sue radici forse in Giordano Bruno e diventa un ambito ben sviluppato nell'Ottocento tedesco, a opera soprattutto di Hegel e Schelling, per poi venire abbandonata con l'avvento del positivismo e della visione della natura come composta da singoli atomi inanimati e quindi come non sostanzialmente diversa dal mondo inorganico.
I due ambiti (intendimento generale e filosofico) non sono però nemmeno del tutto separati, giacché, per esempio, il nostro concetto di natura è molto influenzato dal Romanticismo, soprattutto inglese (si veda (? )), e dal gusto per una “natura” intesa soprattutto come scenari non umanizzati, cui è legata l'emozione per il mondo vegetale e animale. Risale al Romanticismo il gusto per l'osservazione della natura “selvaggia”, mentre precedentemente la natura selvatica destava soprattutto timore perché fonte di imprevisti pericoli. Prima del Romanticismo, troviamo perciò difficilmente descrizioni della natura in quanto tale, ossia non in relazione alla sua utilità per l'uomo e la natura di cui si parla favorevolmente è la natura fortemente domata e ricondotta ai propri scopi. Gli spettacoli in cui è la natura a imporsi (mareggiate, tempeste, nebbia etc.) sono considerati orribili (nel senso di “spaventosi”) e, al più e in epoca cristiana, utili nel ricordare all'uomo la sua piccolezza rispetto a Dio. È invece romantica la scoperta del gusto per la natura in quanto tale, anche nel suo aspetto orribile, rinominato sublime. Mi sono soffermata su tali presupposti impliciti della nostra concezione di natura per mostrare come necessariamente essa sia determinata storicamente e come sia quindi distinta da quanto potremo trovare in India. Tale “scoperta” della natura non è infatti avvenuta nello stesso modo in India, per cui non aspettiamoci di trovare le stesse categorie e poiché è mio compito soprattutto offrire una chiave d'accesso a categorie diverse, cercherò di soffermarmi proprio sulle differenze.
Quanto segue è perciò strutturato in due parti. Dopo una premessa su correnti e scuole filosofiche indiane, spiegherò anzitutto cosa troviamo nelle trattazioni indiane “al posto” della natura, ossia in quali diversi ambiti sono racchiusi discorsi sul mondo che ci circonda e a quali paradigmi sono ispirati. Poi, tratterò di quel che possiamo dedurre circa la natura come da noi comunemente intesa, ossia flora e fauna, nel mondo indiano. Nella prima parte, domande e risposte saranno tratte dal mondo filosofico indiano, nella seconda cercherò risposte indiane a domande occidentali. Tralascerò invece, per questioni di tempo, un confronto fra le riflessioni propriamente filosofiche occidentali e quelle indiane riguardanti l'ambito della natura nelle sue diverse accezioni.