mercoledì 22 ottobre 2008

6.4 Natura e soggetività

Chiarita la non materialità dei primi 20 principi è opportuno soffermarsi anche sui principi più sottili, intelletto, senso dell'io e mente. La mente (manas) indica in filosofia indiana il senso interno, quello tramite il quale cogliamo per esempio il piacere o il dolore. In Sāṅkhya, in particolare, ha uno status ambivalente, perché è anche una facoltà d'azione, nel senso che coordina le facoltà d'azione, fungendo da tramite per l'intelletto. Tutto ciò significa che il puruṣa, pur essendo pura coscienza (o anzi, proprio per questo) letteralmente non pensa nel senso di produrre pensieri. Egli è, come già detto, intrinsecamente in quiete e quindi non produce nuovi pensieri, è invece coscienza limpida, testimone (sākṣin) di quanto accade in prakṛti, nel suo aspetto psichico e fisico. La pluralità dei puruṣa non corrisponde perciò a un loro essere soggettivamente diversi. Ciascuno dei puruṣa non è che pura coscienza. Quindi, tutto quanto noi generalmente leghiamo alla soggettività e all'attività cosciente è invece, secondo il Sāṅkhya, parte di prakṛti. Ricordo in proposito che la caratteristica di prakṛti èl'attività e la generatività; è prodotto di prakṛti, quindi, anche la generazione di nuovi pensieri. Di conseguenza, il discernimento (adhyavasāya) è proprio del più sottile dei principi, buddhi, presso il quale non è ancora presente una soggettivizzazione. Questa interviene come (errata) nozione di un io (abhimāna) nel gradino immediatamente seguente, quello di ahaṅkāra. Segue poi la coordinazione dei dati sensoriali, tipica di manas. Come può però puruṣa essere cosciente delle esperienze di cui può godere grazie a prakṛti? Anche se prakṛti non equivale alla materia, il dilemma è simileall'impasse cartesiano sui rapporti fra psiche e corpo. Se non c'è legame fra puruṣae buddhi/ahaṅkāra/manas, di che cosa è cosciente puruṣa? SK 21 non è una risposta sufficiente, perché in effetti il puruṣa non è solo storpio, è anche cieco e deve prendere in prestito da prakṛti anche gli occhi per vedere il mondo. Sua è solo la capacità di esser cosciente di quanto vede. In termini contemporanei, prakṛti fornisce i dati sensibili già elaborati dai sensi esterni, da manas e da buddhi, come un computer che trasformasse l'immagine di un vaso di fiori nei corrispondenti stimoli elettrici neuronali. Ma solo un soggetto cosciente può poi essere cosciente di conoscere tali dati, per cui la struttura fisica del cervello non basta da sola a spiegare il fiorire della coscienza. Testi sāṅkhya successivi alla Yuktidīpikā (che già però è consapevole del problema) descriveranno il rapporto fra puruṣa e le facoltà conoscitive attraverso la metafora di uno specchio. Puruṣa è lo specchio cosciente di quanto elaborato da buddhi. Esso non è perciò partecipe dell'attività di acquisizione ed elaborazione dei dati sensibili. Può però riceverli essendo esso stesso uno specchio che è, in più rispetto a uno specchio ordinario, conscio di quanto in sé riflesso.

Nessun commento: